L’ultimo degli illuministi

Italiani per Assange
8 min readSep 10, 2021

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Questo scritto riproduce il testo dell’intervento di Serena Ferrario al sit-in del gruppo Italiani per Assange tenutosi l’8 settembre 2021 a Piazza di Monte Citorio a Roma.

Il caso di Julian Assange è stato circondato, fin dai suoi esordi da mistificazioni e calunnie di ogni genere (stupratore, hacker o addirittura cyberterrorista, spia dei Russi, ecc…), ma anche da diverse imprecisioni e incomprensioni legate alla sua figura e alla vicenda giudiziaria che lo riguarda.
Preferisco non dilungarmi sull’accusa di essere un hacker: se anche è vero che da adolescente era entrato senza autorizzazione nei sistemi informatici del Pentagono, nulla di quanto è stato pubblicato da WikiLeaks è mai stato hackerato da Assange, né da lui personalmente, né per suo ordine come emerge da un’intervista bomba del settimanale islandese Stundin a uno dei testimoni chiave dell’accusa, Sigurdur Thordarsson, che nel luglio di quest’anno ha ammesso candidamente di avere inventato di sana pianta la sua testimonianza. Come l’accusa di essere stato autore di hacking possa rimanere in piedi, nonostante la confessione del testimone principale, è una delle tante, troppe, anomalie giuridiche e non che circondano il caso di Julian Assange. Ma si sa, le nostre percezioni e il modo in cui vediamo qualcuno è spesso il frutto di impressioni fugaci, irriflesse, o, quando non ci è dato di conoscerlo direttamente, di voci amplificate e ripetute a dismisura fino al punto in cui si impongono come verità fattuali, indipendentemente dalla loro corrispondenza con la realtà.
Vorrei invece soffermarmi su una caratterizzazione di Assange che a prima vista sembra innocua, ma non lo è, nella misura in cui pregiudica un’autentica comprensione della sua vicenda,nonché dell’importanza e delle implicazioni di questa.

ASSANGE NON E’ UN WHISTLEBLOWER. Lo ripeto: ASSANGE NON E’ UN WHISTLEBLOWER, UNA GOLA PROFONDA, UNA FONTE. E’ UN GIORNALISTA.
Anzi, secondo un editoriale uscito su Il Manifesto il 3 settembre 2021, a firma di Franco Berardi, leggiamo che “Assange ha fatto quello che ogni giornalista dovrebbe fare. Se il giornalismo si misura con gli effetti prodotti dalle indagini e dalle rivelazioni, allora non c’è dubbio che Assange è semplicemente il più grande giornalista della storia”

Ok, potreste dirmi, ma, se anche Assange è un giornalista e non un whistleblower, cosa cambia?
Cambia che, nel bene e nel male, un whistleblower è intrinsecamente una figura ambigua e polarizzante; lo dimostrano per esempio i dibattiti sui social, in cui, nonostante sia chiaro a tutti che non ne abbiano tratto il minimo guadagno, figure come quella di Snowden o di Manning vengono ancora tacciate da molti di essere dei traditori, di avere infranto la fedeltà che li dovrebbe legare alla loro patria. Al riguardo non posso esimermi dal notare che questo giudizio estremamente critico nei confronti dei whistleblower deriva da un’allarmante confusione tra la nazione, a cui è giusto aspettarsi che i cittadini, ma, ancor più, gli ufficiali e i membri di organizzazioni governative siano fedeli, e il governo e i suoi bracci: essere fedeli alla nazione statunitense (o a quella italiana) non vuol dire girarsi dall’altra parte e chiudere la bocca quando ci si ritrova tra le mani le prove di illeciti, frodi, violazione di convenzioni internazionali, per non parlare di programmi di torture di indicibile efferatezza compiute da un corpo armato o da una qualsiasi delle branche dell’esecutivo. E’ facile vedere come da una loro rivelazione non sia danneggiata, né, men che meno, tradita la collettività o la nazione, ma semplicemente un sistema che agisce spesso contro gli interessi dei propri cittadini e che si fa scudo della sicurezza nazionale per promuovere non solo la propria perpetuazione, ma ciò che la garantisce: l’insindacabilità, l’ingiudicabilità e quindi l’impunità totale dei suoi esecutivi, qualunque cosa facciano.
Del resto lo stesso Assange nel 2015, nel corso di una conversazione con la giornalista d’inchiesta italiana Stefania Maurizi, aveva dichiarato: “loro non rispondono di quello che fanno, il che è parte del loro calcolo di mostrare il potere che hanno. Uno dei modi di proiettare il proprio potere è dimostrare che non si è chiamati a rispondere di quello che si fa: siamo intoccabili e quindi non ci toccate” *

Ma ciò che soprattutto cambia è che è la prima volta che un giornalista, un editore, il caporedattore di un’organizzazione dedita alla divulgazione di notizie scomode, in molti casi coperte da segreto, viene portato a processo e incriminato per una serie di capi d’accusa che comporterebbero, se riconosciuto colpevole, una condanna fino a 175 anni. E mentre, come ho accennato prima, la fonte ha effettivamente violato, sia pur in nome di principi morali, il vincolo di riservatezza verso l’organizzazione per cui lavorava (sia essa la CIA, il Pentagono, l’NSA, ecc…), il giornalista non ha fatto nulla di tutto questo, ma, rivelando il materiale che gli è stato consegnato, ha di fatto messo in pratica quella che, secondo l’Organizzazione Culturale, Scientifica e Educativa delle Nazioni Unite (Unesco), è la definizione di giornalismo d’inchiesta, ovvero “la rivelazione di questioni che sono nascoste sia deliberatamente da qualcuno in una posizione di potere, sia accidentalmente dietro una massa caotica di fatti e circostanze, con l’analisi e la esposizione di tutti i fatti rilevanti per il pubblico”.

Questa definizione configura, sia un diritto/dovere per il giornalista (che a questa rivelazione consacra la sua attività), sia un diritto per la collettività che dalla rivelazione dei fatti nella loro autenticità e crudezza riceve un servizio. E, nella misura in cui riguarda un diritto, esso è sancito e tutelato da alcune Convenzioni basilari del diritto internazionale come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo all’articolo 19 e dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, all’art.10: in entrambi si legge infatti “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di… cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.”
Queste parole assumono un significato particolare se si guarda ai motivi per cui gli Stati Uniti richiedono l’estradizione di Assange, ovvero al 2° capo di accusa contenuto nel Fascicolo Incriminatorio (Indictment) messo insieme dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti: “Assange e Wikileaks hanno ripetutamente cercato, ottenuto e diramato informazioni che gli Stati Uniti hanno secretato per via del serio rischio che una loro rivelazione poteva infliggere alla sicurezza nazionale… WikiLeaks ha esplicitamente cercato materiale censurato, o comunque riservato, o secretato”.
Di certo, il timore di un danno, soprattutto se si parla di vite umane, è un buon motivo per astenersi dal rendere pubblica una notizia; ma, a distanza di 11 anni dalla loro pubblicazione, quanti cittadini americani hanno subito danni o perso la vita a causa delle rivelazioni di WikiLeaks? L’accusa americana non è riuscita a citare nemmeno un caso. E quanti cittadini non americani hanno patito danni o sono stati uccisi a causa delle pubblicazioni di WikiLeaks? Anche qui, nemmeno uno. Come dire, ben venga la prudenza, ma se dopo 11 anni, gli unici morti sono quelli rivelati da WikiLeaks, forse l’apposizione dell’etichetta di “top secret” a quei files (e ne vedremo alcuni nel dettaglio), è stata, nel migliore dei casi, un po’ precipitosa, nel peggiore apertamente omertosa. Resta invece, come un’evidenza ben più lampante, il diretto contrasto tra le parole dell’Indictment e quelle dell’art. 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

Tornando al punto da cui eravamo partiti, è importante sottolineare come 1) Assange sia un giornalista (lo dimostrano sia il tesserino di appartenenza alla Federazione Australiana della stampa che a quella Internazionale e sia i numerosi premi vinti per la sua attività di giornalista) e non un whistleblower, 2) come l’incriminazione di un giornalista ai sensi dell’Espionage Act costituisca un precedente di cui è difficile sovrastimare la pericolosità, dato che si tratterebbe di rendere perseguibili penalmente le più comuni pratiche giornalistiche, soprattutto alla luce di quello che l’American Press Institute definisce come lo scopo essenziale del giornalismo: “Lo scopo del giornalismo è perciò di fornire ai cittadini le informazioni di cui hanno bisogno per prendere le migliori decisioni possibili riguardo alle loro vite, alle loro comunità, alla società e al governo” e ancora “il valore di una notizia è quella di accrescere il potere e le possibilità di chi riceve quell’informazione”.

WikiLeaks ha cercato di aumentare le possibilità di chi fruisce dell’informazione attraverso una modalità senza precedenti e per molti versi rivoluzionaria nel mondo del giornalismo: pubblicando sul proprio sito i documenti e le fonti dirette delle notizie. Leggiamo ancora nel libro di Stefania Maurizi: “di questa organizzazione [WikiLeaks] mi colpiva in particolare la scelta di democratizzare l’accesso alla conoscenza e all’informazione, pubblicando i documenti per tutti, affinché qualunque cittadino, giornalista, studioso, politico o attivista del mondo potesse leggerli, fare ricerche e indagare in modo del tutto indipendente sulla guerra in Afghanistan, senza doversi affidare esclusivamente a quello che i giornali avevano scritto.
Trovavo questa scelta rivoluzionaria perché permetteva a qualunque lettore di avere accesso alle fonti primarie delle informazioni pubblicate dai media, cercare i fatti a cui era più interessato, utilizzare i documenti per chiedere giustizia in tribunale e anche verificare come i giornalisti li avevano riportati nei loro articoli: ne avevano scritto fedelmente oppure li avevano distorti, esagerati o censurati? Questo processo di democratizzazione dava potere ai lettori comuni: non erano solo recipienti passivi di quello che riportavano i giornali, televisioni e radio, ma per la prima volta avevano accesso diretto alle fonti primarie questo diminuiva l’asimmetria tra chi aveva questo privilegio, come i reporter, e chi no”.**

Il processo di democratizzazione dell’informazione inaugurato da WikiLeaks richiama molto da vicino il processo di democratizzazione della conoscenza e dello scibile sotteso al progetto dell’Encyclopédie portato avanti dai filosofi francesi Diderot e D’Alembert. L’epoca dell’Encyclopédie- la cosiddetta Età dei Lumi- è anche quella in cui furono teorizzati tutti i principi e i concetti fondamentali su cui si fondano oggigiorno le moderne costituzioni liberali.
Fu l’Illuminismo a rivendicare le libertà che oggi diamo per scontate (libertà di movimento, libertà di pensiero, libertà di parola…), a ribaltare la tradizionale fondazione del potere facendola nascere da un contratto sociale con il quale i cittadini trasferivano ai loro governanti, non la titolarità, ma l’esercizio del potere politico, a condizione che venisse usato per promuovere l’interesse generale e tutelare quei diritti che appartenevano indissolubilmente e irrevocabilmente ad ogni uomo. E fu l’Illuminismo a dare origine al concetto di “opinione pubblica”, intesa come giudice ultimo dell’operato dei governanti: proprio per questo l’Illuminismo vide la nascita e il proliferare non solo di un’abbondantissima pamphlettistica, ma anche dei primi “fogli” (i progenitori degli attuali quotidiani) nella consapevolezza che il giudizio dei cittadini su chi li governa può esplicarsi solo in presenza dell’informazione. Senza di questa, la democrazia si corrompe fino a morire e le libertà si sgretolano l’una dopo l’altra.
Personalmente, mi piace pensare ad Assange come all’ultimo degli Illuministi, l’erede a distanza di 2 secoli e più di Diderot e D’Alembert. Oggi noi assistiamo alla fine di una grande stagione culturale e politica dell’Occidente iniziata nel Settecento; spetta a noi oggi decidere se continuare sul sentiero della democrazia che i nostri padri hanno tracciato per noi o se permettere che Assange venga rinchiuso nel buio di una prigione americana, facendo risorgere un potere assoluto, cioè sciolto da ogni vincolo legale e da ogni obbligazione morale, nel quale le libertà esistono tutt’al più come una concessione temporanea di questo potere e non come diritti inalienabili.

  • * Stefania Maurizi, Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange e WikiLeaks, Chiarelettere Edizioni, 2021 pag. 339
  • **Ibidem, pag 62–63

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Italiani per Assange

Gruppo di cittadini italiani residenti in Italia e all'estero, nato in difesa di Julian Assange e della libertà di stampa.